martedì 5 gennaio 2021

E' così che si manifesta il pensiero critico dell'artista il quale non intende "codificarsi" col distratto mondo dell'arte che non sa o non vuole più fare ricerca.

Più che dipingere mi piacciono le polpette, la neve e l’heavy metal! di Marco Cotroneo Diciamocela sta verità: sul panorama dell’arte internazionale in pochi commentano su facebook e per quanto riguarda le altre piattaforme anche io sono del tutto assente ma ho così tanto discusso d’arte che alla fine ho dimenticato se l’arte è cosa che si mangia. Confondo il luogo comune e non ricordo se con l’arte si mangia a bocca chiusa o se mentre si parla d’arte non si mangia. Il problema è serio, mi si creda! La tavola è imbandita con vario desinare e qui non so se prender coltello e forchetta o lanciarmi a mani strette nelle pirofile, tacere, parlar d’arte, mangiare o non mangiare? Questa frequenza assidua di alcuni sui social mi riporta al liceo artistico, quando i maestri si preoccupavano di curare i propri rapporti paraprofessionali e a discapito delle “informazioni utili” si ergevano a grandi protestatori, sempre discordanti. Estrosi personaggi sulle righe, poverissimi di valide fondamenta teoriche anche se preparati in alcuni casi nella gestione del proprio segno, andicappati nelle capacità comunicative. Col senno di poi e considerando il fermento di questo tempo, distinguo due fasce “professionali”: artisti che lavorano e altri che non lavorano o, per citare un mio testo del 2015, artisti di cui fare a meno. Quando si parla di lavoro si sottintende un guadagno relativo alla produzione, qualsiasi essa sia. I commentatori assidui, me compreso, mi ricordano i miei insegnanti che, non lavorando (non guadagnando) con l’arte, non solo erano costretti a ripiegare sulla scuola (a quei tempi era facilissimo accedere per un maestro d’arte) ma dovevano per necessità umane far valere un minimo del proprio tempo, millantando forza e successo e mettendo in scena teatralità d’ogni sorta. Perché credete sia qui a scrivere? Il pensiero per una soddisfazione professionale ma anche delle sole possibilità lavorative mi sveglia puntualmente alle 5 di mattina. Più che una sveglia è un calcio in culo biologico che alla soglia dei quarant’anni giustamente cerca sfogo. E allora scrivo per lo stesso motivo per cui pubblico foto di quadri, convinto che “farsi notare” sia la strategia unica da attuare. Il social è uno strumento di divulgazione d’altro canto e una possibilità adeguata ai tempi del covid, utile per conoscere nuove persone e sperare di entrare nelle simpatie di altre, possibilmente attaccando pubblicamente altri ancora. “Na guera” insomma! È una catena di frustrazioni, convinzioni, rabbia e invidia. Oltretutto le dinamiche del like e del commento sono sottoposte a equivoci continui, incomprensioni, offese d’ogni sorta e totale disinteresse verso il prossimo. Baudelaire sarebbe stato additato come hater ma questo è inaccettabile, è impossibile! Gli artisti non possono cantarsela e suonarsela da soli ma soprattutto non possono pensare di veicolare il proprio lavoro sui sucial! Il problema è che il social è l’unica alternativa autonoma che ci è rimasta ma è una libertà distopica sempre soggetta ai rapporti e alle relazioni che riusciamo a cucire nella quotidianità. L’analisi, anche l’autoanalisi, del like dimostra che i nostri lavori vengono apprezzati giornalmente dalle persone con cui siamo più a stretto contatto. Quando ci si prede di vista o vengono a mancare le “convenzioni utili alla prosecuzione dei legami” anche i consensi sul nostro lavoro vanno persi. È interessante poi sperimentare il ritratto a sorpresa con tanto di tag: la persona ritratta che condivide il mio quadro riceve più consensi di me. È sempre il quadro a prendere like ma si veicola meglio perché si lega alle relazioni che un altro ha costruito. Una strategia meschina ma che offre una valutazione concreta delle nostre capacità relazionali (Fondamentali per inserirsi nel MERCATO DELL’ARTE) a dimostrazione che ciò che piace è relativamente bello ma non è questo a qualificarne l’essenza. Io non sono capace di definire questo tempo se non dal mio marginale e personalissimo punto di vista. La denuncia e il desiderio di riforma che gli artisti perseguono oggi forse come ieri, è un’esigenza personale e un punto di vista marginale perché solo chi vive le difficoltà dell’arte ha voglia di parlarne. Gli altri lavorano e di questo lavoro, come dovrebbe essere per tutti, vivono. Di seguito l’argomentazione di Pino Bonanno e di Peppe della Volpe sulle mie domande nate in considerazione di un testo scritto da Mimmo di Caterino che potete leggere sul “Cagliari art magazine” e a cui dico soltanto: se stiamo parlando d’arte, la comunità relativa è ovviamente quella legata all’ambiente dell’arte. Le mie domande: Considerando che sin da piccoli ci viene detto di credere in quel che facciamo, viene indotto un certo atteggiamento atto a non demordere, si pretende di ottenere di più anche oltre le nostre stesse possibilità biologiche...come può passare "ipocritamente arrivista" (uso queste due paroline per esprimere tutto il ventaglio dei magliari di cui parli) la persona che con consapevolezza si proclama artista? Anche se ha studiato, potrebbe non esserlo, anche se crede fermamente e sinceramente nel suo lavoro potrebbe non esserlo. E allora la seconda domanda è, come fare a veicolare il proprio lavoro semplicemente per quello che è, cioè arte intesa come attività professionale e non come qualità a cui appellarsi? Come fare tutto questo senza essere equivocati? Allora bisogna aggrapparsi alle figure esterne (critici ecc.ecc) nella speranza che decidano di accreditare l'artista? Ma allora non è arte quello che l'artista pensa di produrre ma quello che la "comunità" considera tale? Di Pino Bonanno Caro Marco, a proposito di quanto scritto da Mimmo Domenico Di Caterino a cui fai riferimento e le tue specifiche domande che poni, mi stimoli alcune riflessioni abbastanza ovvie e comunque facenti parte del bagaglio critico-storico attorno al ruolo dell’artista e le ragioni del significato della sua esistenza all’interno del sistema dell’arte. Parto dalla premessa di Mimmo in cui sottolinea che: “ oggi un artista e un attivista dell’arte, debba essere uno che studia delle problematiche e dà le sue risposte, oggi come allora quando scrivo qualcosa non lo faccio da giornalista, da curatore, da critico o teorico, ma da attivista dell’arte che produce. Si produce quello che si studia, apprende e osserva entrando nel flusso del proprio lavoro e della propria produzione”. Questa premessa non può essere un assunto definitivo che valga come teorizzazione a cui ogni “artista” possa fare riferimento. Il ‘900 ha spalancato il nostro sguardo orientandolo culturalmente ed esistenzialmente verso il relativismo e sollecitandoci a non affrontare valori e problematiche in senso assoluto, dando per scontato che la nostra personale esperienza debba fare testo teoretico. Oggi sappiamo che non è così e ogni esperienza rimane tale soltanto a testimonianza a cui guardare come “caso di specie”. Cominciando col dire che l’artista, in quanto tale, non è chiamato a dare risposte ai quesiti che gli si pongono. Dichiararsi attivista dell’arte non può essere una missione sociale da condividere. Ci può essere qualche “attivista” che senta di praticare l’arte come strumento di lotta sociale o impegno culturale a cui chiamare altri, ma non può essere indicata come la strada razionale per svolgere un principale ruolo nel sistema dell’arte. Anche quando l’artista esprime la propria creatività affrontando tematiche circa le problematiche sociali e umane, rimane sempre riferimento per sé e per gli altri come colui (l’attivista ?) che stimola, solleva domande, cerca risposte adeguate per sommuovere coscienze critiche e non per sanare definitivamente coscienze e conoscenze. Il sistema dell’arte è un mostruoso Leviatano che tutto mastica, distrugge, per rinascere ogni volta guidato da menti finanziarie ed economiche raffinate per offrire nuova materia d’illusione a una massa di sognatori romantici (l’esercito infinito di chi si crede artista) che immaginano possibile per tutti un approdo sicuro sul piano sociale. In vario modo si è chiarito che così non è mai stato e mai sarà così. Proprio a causa del relativismo dal punto di vista concettuale. Lo studio, la cultura, la conoscenza, la curiosità e l’esperienza esistenziale all’interno del sistema dell’arte sono strumenti necessari per dare la forza di base per sentirsi artisti alla ricerca della propria identità creativa per cui si è riconosciuti. Elementi, naturalmente, non esclusivi e non sufficienti per sentirsi artisti consapevoli. Innanzitutto, non bisogna rinunciare al nutrimento che ci perviene dalla cultura e dalla conoscenza, senza che tutto ciò vengano scambiate come esclusive prerogative dell’istruzione istituzionale. Ogni uomo-artista può e deve trovare le sue appropriate strade per acquisire sapere e capacità elaborative per costruire opere mentali e materiali. Attraverso queste strade si acquisiscono consensi o apatie da parte del sistema dell’arte. Ciò significa che il sistema dell’arte riconosciuto come forma sociale che tratta i rapporti fra creatività e l’artista è un macro mondo (in parte criptico, massonico e pseudo selettivo) che si nutre anche di tutto il sottobosco nazionale e territoriale fatto di storici, critici, curatori, galleristi, musei, fondazioni e, per ultimi, ma non troppo, di magliari senza morale e conoscenza adeguata. In questo contesto, l’artista consapevole, che ha lottato e lotta ogni giorno per affermare la propria identità creativa, formatosi una coscienza critica rispetto al suo percorso artistico, rappresenta un piccolo fuscello da “usare”, “guidare”, “schiacciare”, rendere marginale. All’artista rimangono due strade. Credere alle proprie capacità, alla propria identità creativa e quindi lavorare instancabilmente con coraggio e determinazione per trovare la “fessura” giusta per la propria collocazione all’interno del sistema. Tenendo conto che il sistema richiede capacità di dialogo, di autopromozione, di rappresentare teoricamente il proprio lavoro (tematiche, poetiche, linguaggi), di relazioni qualificate e la disponibilità di andare oltre il territorio abituale e viaggiare per conoscere altre culture, altre voci creative. La frequentazione dei soli mezzi informatici e relazioni online non sono sufficienti per costruire rapporti qualificati. Ci vuole la disponibilità ad andare nei luoghi deputati, nei “paesaggi” culturali, artistici in cui si cerca, si sperimenta, ci si confronta senza presunzioni aprioristiche. Oppure, si rinuncia a tutto per cui si è studiato, alimentato la crescita culturale e si cerca alternative pratiche per avere una soddisfazione materiale quotidiana nella società in cui si vive. Ovviamente, tutto ciò può rappresentare e vivere come una grande sconfitta umana e una grande delusione esistenziale, torturandosi con autocritiche inesauribili e frustrazioni di ogni tipo, guardando coloro i quali ce l’hanno fatta con invidia macerante. Credo che a questa ipotesi bisogna guardare con coraggio e sdegno, avendo per sé più autocoscienza e consapevolezza che si ha qualcosa da dire e da far desiderare. Alle tue domande, posso rispondere così: 1) […] “come può passare ipocritamente arrivista (uso queste due paroline per esprimere tutto il ventaglio dei magliari di cui parli) la persona che con consapevolezza si proclama artista? - Non ci si auto proclama artista. Almeno da parte di chi ha coscienza che esserlo ha richiesto e richiede sacrifici, applicazioni, conoscenza, impegno intellettuale. Un grande d’intelletto e di cultura non farà mai l’errore di auto proclamarsi, ma resterà equidistante nel rapporto con altri che credono nella ricerca, nel lavoro di grande impegno quotidiano e che sanno rapportarsi col mondo, anche mantenendo la propria integrità intellettuale ed etica. I dilettanti della Domenica sono spesso indotti a considerarsi artisti. Ma qui finisce la riflessione. 2) […] “come fare a veicolare il proprio lavoro semplicemente per quello che è, cioè arte intesa come attività professionale e non come qualità a cui appellarsi?” - E’ un duro lavoro di promozione culturale e di “mercato”, abituandosi a credere nella propria creatività come il risultato e il frutto di elaborazione intellettuale che rende l’opera d’arte simile a qualsiasi prodotto da “offrire” al mercato fatto di collezionismo istituzionale, privato e pubblico. Rinunciando al “credo” improprio imposto da certi docenti troppo teorici, spesso ignoranti e sazi delle proprie entrate materiali i quali hanno abdicato dal ruolo d’artista, gonfiandosi col piccolo potere delle cattedre e delle relazioni accademiche e istituzionali. Costoro, spesso inducono gli studenti a guardare l’opera creativa come un personale privilegio che attesti la qualità superiore della loro esistenza. E’ l’inizio di un grande precipizio da cui è quasi impossibile sottrarsi in quanto non si tiene conto della terribile realtà della vita e del sistema dell’arte che spesso è da costoro completamente ignorato. 3) “Come fare tutto questo senza essere equivocati?” - Intanto, distinguendo i livelli verso cui ci si rivolge. Nel grande sistema internazionale dell’arte è noto a tutte le figure che vi agiscono il significato dell’opera d’arte. L’artista professionista che vuol vivere del frutto del proprio lavoro deve saper bene confrontarsi con costoro e trattare le proprie opere come qualificato lavoro da offrire per ricavare un “reddito” in quanto prodotti di grande valore. Bisogna, quindi, attrezzarsi per rendere il rapporto con queste figure alla pari. L’artista offre, il curatore, il critico, lo storico, il gallerista valuta e attraverso il suo ruolo all’interno del mercato agisce per “suggerire”, “raccomandare” l’opera affinché venga acquisita dal collezionismo più vario, dai musei, dalle fondazioni. Ciò significa che l’artista non deve disdegnare l’azione del “venditore” e abbandonarsi inerme alle altre figure del sistema. Sarebbe il primo passo verso la prigionia a vita. Occorre diventare anche promotore del proprio lavoro, senza la puzza aristocratica sotto il naso. 4) “Allora bisogna aggrapparsi alle figure esterne (critici ecc.ecc) nella speranza che decidano di accreditare l’artista? - In parte, ho già risposto, ma ribadisco la necessità di “frequentare”, rendere paritarie queste figure al ruolo dell’artista. Non bisogna aggrapparsi, ma farle rincorrerti in quanto devono capire che sei il soggetto primario e privilegiato della produzione artistica. L’accredito deve avvenire in forza di una conoscenza reciproca e di rispetto intellettuale. Ecco perché l’artista deve essere il teorico e critico di se stesso, in modo da guidare l’azione di tutte le figure in campo. 5) “Ma allora non è arte quello che l'artista pensa di produrre ma quello che la comunità considera tale? - Se parliamo di artista professionale e qualificato come tale (lasciamo stare i dilettanti), egli deve sapere bene cosa sia arte e cosa non lo sia, altrimenti è difficile convincere gli altri che stai producendo arte e perché lo fai. Se l’artista è convinto e sa convincere e presentare il proprio lavoro, sarà apprezzato dalla “comunità” e potrà frequentarla senza alcuna remora, che non sia solo quella del singolo rapporto personale che non apprezza. Dialogo con Peppe della Volpe Caro amico mio Marco. Questa mia risposta, alle tue domande ti potrà sembrare una risposta inappropriata, semplice e banale, ma se mi leggi tra le righe non è affatto semplice e banale. Quando ero piccolo e credevo fortemente di diventare un grande giocatore di pallone, quelli più grandi e più bravi mi dicevano, con tono inesorabile, sempre la stessa cosa: i fondamentali, Peppe devi imparare i fondamentali. Dunque, ecco i fondamentali che ringrazio. Mio fratello Ermanno, anche se più piccolo di me di due anni e tutto per me, fratello, madre e padre. Salvatore (Sasa per gli amici) e Titina, i miei genitori. Che mi hanno insegnato a perdere tempo senza avere nessuna meta, fino a notte fonda. Ci siamo regalati gli uni con gli altri, l'illusione della spensieratezza. Marco Cotroneo Caro Peppe, è una risposta genuina degna del pensiero di Peppe artista e non teorico. Un testo sottile se lo rapportiamo alle domande che hai centrato con proiettorie a effetto e poco, poco leggibili per molti. Una riflessione autobiografica per la quale ti ringrazio e mi permetterò però di tradurre in mero linguaggio tecnico. E sintetizzando, sembrerebbe essere questa la tua definizione di arte oltre che dell'artista: il fare per il piacere del fare. Perdersi nel fare come atto impulsivo; nonostante l'atto sia sempre attentamente pensato, esprimerlo è come compiere un gesto naturale, senza il quale si muore. Diventa quindi il procedere creativo un modo "terapeutico" ma indispensabile come respirare o mangiare. E quale migliore terapia se non il cibo che assumiamo? Ma l'arte si mangia o con l'arte si mangia? O forse non si mangia! Ma non è il cibo la questione...o forse si? Peppe della Volpe Se sei bravo artisticamente, ma non ti sottometti alle lobby (fare bocchino) non mangi, raccimoli qualche panino. Se sei mediocre come pittore e fai i bocchino alle lobby, diventi più artista di chi artista lo è. Comunque a me artista resta una brutta parola, perché fanno tutti i bucchin al sistema.

martedì 17 novembre 2020

IL PROBLEMA DEL VETRO - di Marco Cotroneo

Sarà che sono abituato a un gesto pensato e deciso; è nel gesto il segno e dal movimento della mano che collegata alle articolazioni del braccio spinge la punta dello strumento in un movimento. Il segno è movimento tanto che lo stesso concetto di spazio-tempo può essere descritto da una linea tracciata sul foglio. Non è diverso dalla scrittura che permette una dettagliata analisi psicologica tramite lo studio della calligrafia. E così anche il di-segno, all’osservatore attento, suggerisce informazioni inequivocabili relative al carattere dell’artista. Tuttavia l’artista sapiente e cultore della propria disciplina è capace di compromettere l’interpretazione del fruitore gestendo il segno e decidendone la funzione emotiva. Una linea satura dal tratto esasperato può generare turbe mentre una linea sottile, pulita e uniforme nella continuità del tracciato trasmette sensazioni più rilassanti. Il trucco è quello di forzare il sistema percettivo amplificandone le informazioni tramite dissonanze di colore e tratto sincopato: la pittura informale ha dimostrato che sono sufficienti queste due accortezze tecniche per generare un importante coinvolgimento con “l’immagine” ma nella storia dell’arte non si è mai persa la necessità di esasperare tanto la narrazione, quanto la figurazione formale per rendere più stimolante l’esperienza visiva. Il gesto tuttavia rimane un’espressione intima, biologicamente unica tant’è che non esiste una tecnica universalmente riconosciuta per tracciare una linea o comporla in una forma. Il tipo di movimento, la posizione da tenere, la pressione del braccio sulla mano sono tutti fattori individuali relativi alla personale gestione del gesto e quindi del proprio corpo. La stessa qualità del segno è relativa a fattori fisici determinanti, e per quanto la nostra cultura greco-occidentale abbia nettamente separato le differenze fra mente e corpo, la dinamica cerebrale concerne la fisicità dell’artista. Le grandi differenze nella proposta di stile sono infatti relative allo stato mentale dell’operatore di immagini, alla condizione cognitiva oltre che emotiva sono conseguenziali, con i relativi contrari, i riflessi motori, i movimenti volontari e involontari, la stanchezza fisica e visiva. La proposta stilistica resta, al di là delle capacità di gestione del se, suscettibile alla condizione generale di vita. Cosi possiamo spiegare l’evoluzione del linguaggio artistico generale, appurando come ogni artista sia giunto a conclusioni varie nel corso della sua produzione divisa in periodi che scandiscono il ritmo stesso della vita. Resta inspiegabile l’operato di certi “creativi” che nel corso della propria esperienza artistica non hanno mai variato il proprio linguaggio. Lo stile, è una truffa! È la richiesta di omologazione da parte del mercato, che chiede un prodotto riconoscibile dal fruitore e immediato nella riconducibilità all’artista, ma se l’artista è uomo, è persona, non può trattenere il riflesso nel gesto della creazione. Dobbiamo leggere quindi il prodotto di questo pasticcere dell’arte come un linguaggio basico perché non ha subito alcuna modifica di percorso, alcuna influenza da parte del territorio o dell’ambiente circostante. Nel linguaggio, dobbiamo sempre tener conto che le interazioni né favoriscono la crescita e negare l’elaborarsi autonomo di un “periodo”, ancorandosi al “conosciuto” senza avere la curiosità di esplorare, denota una certa assenza di coraggio nell’azione del gesto e una folle metodica disconoscitiva. Entra in campo l’autenticità dell’opera che è nettamente legata alla riconoscibilità “della persona dell’artista” e questo non ha nulla a che vedere con la riconoscibilità dello stile. Il segno deve quindi essere strutturato, esercitato e accurato ma deve comunque lasciar trasparire l’intima esperienza dell’artista, il tic, l’ictus, la frenesia. Questo chiarisce le sofisticate differenze fra opera e disegno, oggetto, “prodotto”. Tutto questo è sintetizzabile nella trasparenza del vetro: quelle forme convesse di recipienti pieni, che attestano la propria presenza da un infinito scintillio di riflessi e dai quali si accede a un punto di vista trasformato, deformato, adeguato all’ampolla da cui i colori del fondo restano invariati, ma variano nel subire le influenze della luce che filtra dalle pareti del bicchiere rimbalzando dal contenuto alla stanza. Approcciare a questo tipo di figurazione è per molti un supplizio. Bisogna operare con un’osservazione ossessiva trasferendo l’immagine che deve consegnare la sensazione della trasparenza tramite la speculazione dell’effetto ottico. Diversamente, si può pescare nella memoria ma, per parafrasare De Chirico “è quando non hai un modello che casca l’asino”. Se è necessaria l’osservazione per la ripetizione, la stanchezza visiva e le difficoltà relative alla luce negli ambienti diventano responsabili fattori di co-produzione dell’opera ma a questo punto anche il gesto subisce le dinamiche della creazione. Il bello è implicito all’atto creativo e di conseguenza, l’artista che cerca il bello prima nella soddisfazione visiva, poi in quella psico-fisica per estensione del “risultato finale”, rischia di generare un elaborato lezioso, viziato e confutante della dinamica inconscia relativa alle proprie paure. E queste paure si manifestano nel negare la cancellazione del segno come unico atto di prosecuzione dell’opera, il segno resta, permanendo il medesimo orrore visivo di velatura in velatura. Il segno troppo pensato, rimpasta colore, stratifica grassi grumi fino a rendere la superfice illavorabile. Per approcciare alle difficoltà della trasparenza bisogna quindi mettere da parte ogni dubbio e operare diventando trasparenti. Il gesto deve essere fluido, i colori netti e puliti, i riflessi immediati e luminosi. Bisogna lasciar fluire quel tic, è necessario un approccio liquido per il problema del vetro, è necessario fermentare per poi farsi contenere.